La Storia
Accanto alla vicina Soriano, Gerocarne risulta segnalata per la lavorazione dell’argilla diretta alla produzione di vasellame domestico fine. Ma, mentre a Soriano la produzione si interruppe diversi decenni or sono, a Gerocarne l’industria ceramica si è protratta dal Cinquecento ai nostri giorni.
Nonostante gli eventi sismici che hanno ripetutamente distrutto gli abitati, si conservano ancora tracce delle antiche strutture di produzione. Esse sono così numerose, oltre che ubicate a poca distanza le une dalle altre, da assumere la conformazione di un vero e proprio quartiere artigiano.
Lo spoglio dei catasti onciari attesta che Soriano (1741), con i suoi 65 pignatari, ai quali si aggiungevano due piattari, e la vicina Motta di Gerocarne, con un mastro vasaio, un argagnaro, tre rovagnari, due pignatari e tre piattari, erano al tempo tra i più fiorenti centri di tradizione figulina della Calabria.
Soriano era inoltre famosa per la lavorazione dei piatti e delle giare destinate a contenere acqua, olio o cereali. I cognomi degli artigiani attestati nel catasto onciario di Arena (1782), riconducono a gruppi familiari ancora oggi dediti a tale attività.
Dopo il sisma del 1783 a Soriano Alto, i piattari scompaiono lasciando il campo alla produzione delle fornaci di Soriano Basso, per lo più incentrata sulle giare, tanto da imporsi come punto di riferimento anche per il catanzarese e per il marchesato e su recipienti grezzi d’uso domestico, come le quartare.
Tra Otto e Novecento nella produzione di stoviglie emerge Gerocarne che diffonde i suoi manufatti in buona parte della Calabria Ulteriore, entrando in competizione con Seminara anche per le cannate e per i vasi da conserva, molto richiesti perfino nei centri della Piana.
Lenormant, intorno al 1880, segnala che a Gerocarne «si fabbricano dei vasi usuali in maiolica, rivestiti di una patina stagnifera bianca, sulla quale si disegnano degli ornamenti a fuoco di diversi colori, rosso, turchino, verde, giallo».
Nel piccolo centro, la produzione delle cannate continua, pur con un’ulteriore stilizzazione dei motivi decorativi tracciati orizzontalmente sulla spalla, fino ad oltre la metà del XX secolo, anche quando, a opera del Gruppo Terracotta, si sperimentavano nuove forme.
Accanto a Seminara, tra gli antichi centri di produzione della Calabria, Gerocarne è tra quelli che nel tempo hanno mantenuto la più stretta continuità nella trasmissione dell’arte figulina di generazione in generazione, tanto da conservare ancora oggi attive le antiche fornaci a legna, sebbene dedite esclusivamente alla produzione di terrecotte da fuoco.

Fino agli anni ’70 del ’900 a Gerocarne, i vasai venivano distinti in “bianchi” (‘i jànchi) e “rossi” (‘i russi), dal colore che assumevano in cottura le due diverse qualità di argilla che, rispettivamente, costituivano la base della loro “arte”.
Anche la produzione era fortemente differenziata e con essa variavano i “segreti del mestiere”, gli accorgimenti tecnici indispensabili per eseguire la lavorazione a “regola d’arte”, gelosamente tramandati di maestro in discepolo. Cosicché chi sapeva lavorare l’argilla rossa difficilmente era capace anche nella bianca e viceversa, salvo rare eccezioni.
I “bianchi”, con l’argilla calcarea, grigiastra, duttile e setosa, estratta nei pressi dell’abitato, lavoravano prevalentemente cannate a due anse contrapposte, dette cùccume, vasi da dispensa e altre stoviglie ingobbiate, invetriate e ingentilite da semplici motivi decorativi in verde ramina e giallo ferraccia.
I “rossi” erano invece specializzati nella produzione di pignate e tegami di varie forme e misure, impiegando l’argilla non calcarea, grassa e resistente al fuoco, dapprima cavata ai Gigliari, a monte del paese, poi nella cava, tuttora sfruttata, in località Rombolà nel territorio di Sant’Angelo.
Negli anni ’70, anche gli ultimi dei “bianchi” cessarono la propria attività, dopo che l’evoluzione del mercato aveva soppiantato i tradizionali recipienti d’uso domestico in terracotta con più pratici e “moderni” prodotti industriali in materiale plastico o in vetro.
Attualmente, a Gerocarne sopravvive soltanto la lavorazione dell’argilla “rossa”, rivolta quasi esclusivamente alla produzione di tegami da fuoco – tièji, tièsti e pignàti – ai quali si aggiungono poche altre forme, come scodelle e brocche.
La Produzione
Le zolle di argilla, prelevata in località Rombolà, vengono conservate al coperto, accatastate in un angolo all’interno del laboratorio.
Dopo averle sgretolate pestandole con una mazza di legno, oggi per lo più sostituita da un piccolo frantumatore meccanico, l’artigiano passa rapidamente al setaccio il materiale e pone i pezzi un po’ più grossolani in ammollo, per circa otto ore, entro un’apposita vasca in muratura, conservando la parte polverizzata per aggiustare la consistenza dell’amalgama prima di introdurlo nell’impastatrice.
Quest’ultimo processo un tempo veniva compiuto senza l’ausilio di macchine ad alimentazione elettrica, calpestando e rivoltando con i piedi l’argilla stesa sul pavimento, mentre l’uso dell’impastatrice consente ormai da qualche decennio di disporre rapidamente di materiale omogeneizzato e trafilato, pronto per essere lavorato al tornio.

Svolgendosi all’interno di un repertorio limitato e standardizzato, la lavorazione segue ritmi spediti e avviene quasi in serie, lasciando poco spazio alla creatività. Il maestro vasaio non ha bisogno di altro che dei suoi occhi e delle forme tradizionali che reca impresse nella mente per creare una serie di manufatti di dimensioni pressappoco identiche.
I pezzi, una volta modellati, si staccano dal piano girevole attraverso un filo di ferro e si pongono ad asciugare al sole o all’interno del laboratorio, allineati su lunghe assi di legno.

La foggiatura, appena il grado di essiccazione lo consente, si conclude con l’applicazione dei manici.La prima cottura avviene nella fornace che usa come combustibile le frasche di ginestra. Dopo un giorno di cottura i pezzi, ancora caldi, vengono scaricati e condotti in magazzino in attesa di essere verniciati e sottoposti all’ultima cottura nel forno a metano.

Gli Strumenti
Delle quattro fornaci miracolosamente rimaste in piedi nel centro storico di Gerocarne, soltanto una viene ancora utilizzata dai vasai, limitatamente alla prima cottura.
La seconda cottura richiede invece forni a metano o elettrici per garantire una fusione ottimale delle vernici atossiche per stoviglie che da decenni hanno soppiantato lo “stagno”, un tempo preparato dagli stessi artigiani macinando l’ossido di piombo con una pietra reperita in loco che oltre alla silice conteneva gli ossidi metallici atti a conferire alla vernice la caratteristica tonalità giallo-arancio.
Le fornaci tipiche di Gerocarne presentano ampia camera di combustione, alta circa 1.80 m, mentre la camera di cottura viene “costruita” disponendo il carico in forma piramidale troncoconica, a partire dalla base in muratura profonda appena 30-40 cm.
Generalmente le fornaci non sono racchiuse in veri e propri edifici ma sono coperte da larghe tettoie ad un solo spiovente, dette pinnate, addossate ad una o due pareti in muratura e sorrette da un sistema di pali lignei. In corrispondenza della camera di combustione le tegole si trovano sostituite da lamiere facilmente rimovibili durante il processo di cottura.

Il carico viene rivestito lungo il perimetro e alla sommità, impiegando, ai lati, tegami di scarto, sistemati l’uno sull’altro di fianco, in filari paralleli e sovrapposti, e rinzeppati con “straci” per riempire i vuoti, mentre la cosiddetta “cima” viene coperta per lo più con piatti e coperchi.
I pezzi vengono caricati in fornace a freddo e all’artigiano, solitamente assistito dai familiari, occorrono almeno otto ore di lavoro per sistemare opportunamente carico e rivestimento in modo da poter avviare il processo di cottura.
La cottura inizia a fuoco basso. Dopo circa 20 ore, quando tutta l’umidità residua del carico è evaporata, il fuoco si alza e viene alimentato a ritmo sostenuto per almeno quattro ore.
Quando, osservando il colore della terracotta impiegata per coprire il carico, il vasaio è certo che il processo di cottura sia ultimato, il fuoco non viene più alimentato e si lascia estinguere lentamente.
Nel caso in cui sia prevista pioggia, la camera di cottura viene coperta con lamiere per evitare che uno shock termico provochi lesioni ai manufatti.
Riconoscimenti: storia
Curator — Camera di Commercio di Vibo Valentia
Ringraziamenti: tutti i partner multimediali